Dazi Digitali: la tassa che paghi su Netflix e Google?

Scopri cosa sono i dazi digitali e come la Digital Service Tax, la nuova frontiera della tassazione, potrebbe influire sul costo dei tuoi abbonamenti a Netflix, Google e altri servizi online.

In Breve (TL;DR)

Con l’avvento della Digital Service Tax, la tassazione si sposta dal mondo dei beni fisici a quello dei servizi digitali, con un impatto diretto sui costi di abbonamenti e piattaforme online.

Questo dibattito globale mira a tassare i profitti dei colossi tecnologici nei paesi in cui operano, con un impatto diretto che potresti vedere sul costo dei tuoi abbonamenti digitali.

Questo dibattito globale solleva una domanda cruciale: il costo di questa nuova tassazione ricadrà sulle grandi aziende tecnologiche o verrà trasferito direttamente sui consumatori finali?

Nell’era dell’economia digitale, dove beni e servizi viaggiano con un clic, la tassazione si confronta con una nuova frontiera. Le tradizionali imposte, pensate per un mondo di scambi fisici, faticano ad adattarsi a un mercato globale e immateriale. In questo scenario, l’Italia e l’Europa hanno introdotto la cosiddetta Digital Service Tax (DST), o imposta sui servizi digitali, un tributo che mira a ristabilire l’equità fiscale. Questa tassa, spesso definita “web tax”, non è un dazio nel senso classico del termine, ma rappresenta un tentativo di far contribuire i giganti del web, spesso multinazionali estere, al gettito fiscale dei Paesi in cui generano ingenti profitti, anche senza una presenza fisica stabile.

La questione è complessa e tocca da vicino la vita di tutti i giorni. Ogni volta che usiamo un motore di ricerca, interagiamo su un social network o acquistiamo da una piattaforma e-commerce, contribuiamo a creare valore per le grandi aziende tecnologiche. La Digital Tax si propone di tassare proprio questo valore, generato grazie alla nostra partecipazione. L’obiettivo è nobile: garantire che le multinazionali digitali paghino la loro giusta quota di tasse, proprio come le imprese tradizionali. Ma quali sono le implicazioni per i consumatori finali? Il costo di questa imposta rischia di essere trasferito sugli utenti, traducendosi in un aumento degli abbonamenti o dei prezzi dei servizi che usiamo quotidianamente?

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La tassazione dei servizi digitali è solo la punta dell’iceberg. Per navigare la complessità della finanza moderna e capire come le nuove normative fiscali impattano l’economia digitale e le tue tasche, scopri tutti gli approfondimenti della nostra sezione dedicata.

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Mappamondo stilizzato con reti digitali, icone di valute e un martelletto per simboleggiare la regolamentazione del commercio
La digital tax sta ridisegnando le regole del mercato globale. Approfondisci l’impatto dei nuovi dazi sui servizi digitali per aziende e consumatori.

Cos’è e come funziona la Digital Service Tax in Italia

L’Italia ha introdotto l’Imposta sui Servizi Digitali (ISD) a partire dal 2020, con l’obiettivo di tassare i ricavi delle grandi imprese digitali. L’imposta prevede un’aliquota del 3% applicata ai ricavi derivanti da specifici servizi digitali. Questi servizi includono la veicolazione di pubblicità online mirata, la fornitura di interfacce digitali che facilitano l’interazione tra utenti (come i marketplace) e la trasmissione di dati raccolti dagli utenti stessi. In pratica, si tassano i guadagni ottenuti dalla pubblicità personalizzata che vediamo sui siti e social media e i corrispettivi che le piattaforme trattengono sulle transazioni tra utenti.

Per essere soggetta a questa imposta, un’impresa, o il gruppo di cui fa parte, deve soddisfare precise soglie dimensionali. Fino a poco tempo fa, i requisiti erano due: un fatturato globale annuo di almeno 750 milioni di euro e ricavi da servizi digitali realizzati in Italia per almeno 5,5 milioni di euro. Tuttavia, la Legge di Bilancio 2025 ha introdotto una novità significativa, eliminando la soglia dei ricavi domestici. Ora, tutte le aziende con un fatturato mondiale superiore a 750 milioni di euro che forniscono servizi digitali in Italia sono tenute a pagare l’imposta, indipendentemente dall’ammontare dei ricavi generati nel nostro Paese. La localizzazione dell’utente, e quindi del ricavo, avviene tramite l’indirizzo IP del dispositivo utilizzato.

La sfida europea alla tassazione dei giganti del web

La questione della tassazione digitale non è solo una priorità italiana, ma un tema centrale nel dibattito europeo. Per anni, l’Unione Europea ha cercato di creare un quadro normativo comune per garantire che i colossi del web, in gran parte americani, contribuissero equamente al sistema fiscale dei Paesi membri. Molte di queste multinazionali, infatti, sfruttando le pieghe dei sistemi fiscali internazionali, riescono a trasferire i loro profitti in Paesi a fiscalità agevolata, come l’Irlanda, pagando tasse irrisorie rispetto ai guadagni realizzati in mercati come quello italiano, francese o tedesco. Questa pratica, nota come elusione fiscale, crea una disparità evidente: nel 2018, le imprese digitali erano soggette a un’aliquota fiscale media del 9,5%, contro il 23,2% delle aziende tradizionali.

Nonostante la forte volontà politica, raggiungere un accordo a livello UE si è rivelato complicato, a causa dell’opposizione di alcuni Stati membri che temevano di perdere la loro attrattiva fiscale. Di fronte a questi ostacoli, e in attesa di una soluzione globale promossa dall’OCSE, diversi Paesi, tra cui Italia, Francia, Spagna e Austria, hanno deciso di procedere autonomamente, introducendo imposte nazionali sui servizi digitali. Queste iniziative nazionali sono state concepite come misure temporanee, in attesa di un’armonizzazione a livello internazionale che tarda ad arrivare, anche a causa delle pressioni degli Stati Uniti, pronti a rispondere con dazi di ritorsione per proteggere i propri giganti tecnologici.

Tradizione e innovazione: un equilibrio mediterraneo

Nel contesto italiano e mediterraneo, il dibattito sulla Digital Tax assume sfumature particolari, intrecciando la necessità di innovazione con la tutela di un tessuto economico tradizionale. L’Italia, culla di una cultura millenaria e di un’economia fortemente radicata nelle piccole e medie imprese (PMI), si trova a dover bilanciare la spinta verso la digitalizzazione con la salvaguardia delle attività commerciali tradizionali. I negozi di quartiere, le botteghe artigiane e le attività familiari rappresentano non solo un pilastro economico, ma anche un patrimonio culturale e sociale. Queste realtà subiscono la concorrenza, spesso impari, dei colossi dell’e-commerce che beneficiano di regimi fiscali più vantaggiosi.

L’introduzione di una tassa sui servizi digitali può essere vista come un tentativo di riequilibrare il campo da gioco. Tassare i giganti del web dove generano profitti significa creare un ambiente più giusto e competitivo, dove l’innovazione non penalizza la tradizione. L’obiettivo è integrare il nuovo senza distruggere l’antico, promuovendo una “cittadinanza digitale” consapevole. Si tratta di una sfida che riflette l’anima mediterranea: la capacità di accogliere il nuovo, l’innovazione e il commercio globale, senza però rinunciare alla propria identità e alle proprie radici, trovando un sentiero sostenibile che valorizzi sia il potenziale dell’economia digitale sia la ricchezza del commercio di prossimità.

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L’impatto della Digital Tax: chi paga davvero il conto?

Una delle domande più pressanti riguardo all’imposta sui servizi digitali è: chi ne sopporta realmente il peso economico? Sebbene la tassa sia applicata direttamente alle grandi aziende digitali, esiste il concreto rischio che queste scarichino il costo aggiuntivo a valle, ovvero sui loro clienti e, in ultima istanza, sui consumatori finali. Questo fenomeno, noto come traslazione d’imposta, potrebbe manifestarsi attraverso un aumento delle commissioni per le imprese che vendono sui marketplace, un incremento dei costi pubblicitari per chi promuove online la propria attività o un rincaro degli abbonamenti a servizi di streaming e intrattenimento.

Le associazioni di categoria hanno espresso preoccupazione, evidenziando come un aumento dei costi operativi per le PMI che utilizzano servizi digitali per crescere e competere possa rallentare l’innovazione e lo sviluppo economico nazionale. Se un’impresa italiana deve pagare di più per la pubblicità su Google o per vendere i propri prodotti su Amazon, è probabile che questi costi extra si riflettano sui prezzi al consumo. In questo senso, la Digital Tax, nata per garantire equità fiscale, potrebbe paradossalmente trasformarsi in un costo nascosto per i cittadini, incidendo sulla loro spesa quotidiana in modo simile a come i dazi tradizionali possono influenzare i prezzi dei beni importati.

Il futuro della tassazione digitale: tra accordi globali e sovranità nazionale

Il futuro della tassazione digitale è un puzzle complesso, sospeso tra la ricerca di un accordo globale e le iniziative dei singoli Stati. Da anni, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) lavora a una riforma fiscale internazionale, articolata in due “pilastri”. Il primo pilastro mira a riallocare una parte dei profitti delle multinazionali nei Paesi in cui si trovano i consumatori, superando il concetto di presenza fisica. Il secondo pilastro punta a introdurre una global minimum tax, un’aliquota minima effettiva del 15% per le grandi imprese, per contrastare la corsa al ribasso tra i Paesi e limitare il ricorso ai paradisi fiscali.

Tuttavia, il percorso verso un’intesa globale è lento e irto di ostacoli, soprattutto a causa delle resistenze politiche, in particolare degli Stati Uniti, che vedono queste misure come potenzialmente discriminatorie verso le proprie aziende tecnologiche. Questa situazione di stallo ha lasciato spazio all’azione unilaterale di molti Paesi europei, inclusa l’Italia. La sfida per il futuro sarà trovare un equilibrio tra la sovranità fiscale nazionale, che permette di rispondere a esigenze immediate di equità, e la cooperazione internazionale, indispensabile per evitare un sistema frammentato di tasse e potenziali guerre commerciali basate su dazi di ritorsione. La “sunset clause” presente nella legge italiana, che prevede l’abrogazione della DST nazionale all’entrata in vigore di un accordo internazionale, testimonia questa natura transitoria.

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Conclusioni

La Digital Service Tax rappresenta un passo necessario e coraggioso per adattare il sistema fiscale a un’economia sempre più immateriale e globalizzata. In un contesto come quello italiano ed europeo, questa imposta non è solo uno strumento per recuperare gettito, ma anche un tentativo di riaffermare un principio di equità, chiedendo ai giganti del web di contribuire al benessere delle comunità in cui operano e prosperano. La sfida è complessa e si muove su un filo sottile: da un lato, la necessità di non soffocare l’innovazione e di non gravare sui consumatori e sulle piccole imprese; dall’altro, l’urgenza di garantire un mercato equo dove la tradizione del commercio locale possa convivere e competere con la nuova frontiera digitale. L’evoluzione del dibattito, sia a livello nazionale che globale, con le trattative in sede OCSE, sarà decisiva per definire il futuro della tassazione nell’era digitale, un futuro in cui, si spera, le regole del gioco siano uguali per tutti, dal piccolo artigiano alla multinazionale tecnologica.

L’impatto di queste nuove forme di tassazione è un tema in continua evoluzione, che tocca direttamente le nostre finanze e le nostre abitudini di consumo. Comprendere come funzionano e quali sono le loro implicazioni è il primo passo per essere cittadini e consumatori consapevoli, capaci di navigare le complessità di un mondo in cui fisico e digitale sono sempre più intrecciati. La discussione sui dazi digitali è, in fondo, una discussione sul tipo di società e di mercato che vogliamo costruire.

Domande frequenti

disegno di un ragazzo seduto a gambe incrociate che regge un laptop con scritto dietro allo schermo Conclusioni

Cos’è esattamente la Digital Service Tax italiana?

La Digital Service Tax (DST), o Imposta sui Servizi Digitali (ISD), è un’imposta introdotta in Italia nel 2020. Si tratta di un prelievo con un’aliquota del 3% sui ricavi generati da determinate attività digitali. Non è una tassa sugli utili, ma sul fatturato. I servizi tassati includono la pubblicità online mirata, la messa a disposizione di piattaforme digitali che permettono agli utenti di interagire e scambiare beni o servizi, e la trasmissione di dati raccolti dagli utenti. L’obiettivo è tassare le grandi aziende tecnologiche, spesso multinazionali, che generano valore economico in Italia grazie alla partecipazione degli utenti localizzati nel nostro Paese, identificati tramite l’indirizzo IP.

Chi è obbligato a pagare la Digital Tax in Italia?

Sono tenuti a pagare la Digital Service Tax i soggetti esercenti attività d’impresa, sia italiani che esteri, che superano una specifica soglia dimensionale a livello di gruppo. In particolare, l’imposta si applica alle imprese che hanno un ammontare complessivo di ricavi globali non inferiore a 750 milioni di euro nell’anno solare precedente. A seguito delle modifiche introdotte con la Legge di Bilancio 2025, è stata eliminata la precedente soglia che richiedeva anche un minimo di 5,5 milioni di euro di ricavi da servizi digitali realizzati in Italia. Questo significa che ora l’obbligo scatta per tutte le grandi aziende che superano la soglia di fatturato mondiale e forniscono servizi digitali a utenti in Italia.

Questa tassa aumenterà il costo dei miei abbonamenti online come Netflix?

Esiste un rischio concreto che le aziende soggette alla Digital Service Tax trasferiscano questo costo aggiuntivo sui consumatori finali. Questo potrebbe tradursi in un aumento dei prezzi degli abbonamenti per servizi di streaming, delle commissioni sulle piattaforme di e-commerce o dei costi per servizi digitali in generale. Sebbene la tassa sia formalmente a carico delle grandi aziende, la loro reazione potrebbe essere quella di adeguare i listini per mantenere inalterati i propri margini di profitto. Diverse analisi economiche e prese di posizione di associazioni di settore hanno evidenziato questa possibilità, sottolineando come l’imposta, pensata per colpire i giganti del web, possa di fatto ripercuotersi sulle tasche dei cittadini.

Perché l’Unione Europea non ha ancora una Digital Tax unica?

L’Unione Europea ha discusso a lungo la creazione di una Digital Tax comune, ma non è ancora riuscita a raggiungere un accordo unanime. L’ostacolo principale è rappresentato dalla necessità di approvazione da parte di tutti gli Stati membri, alcuni dei quali, come l’Irlanda, la Danimarca e la Svezia, si sono opposti. Questi Paesi temono che una tassa comune possa danneggiare la loro competitività, avendo costruito parte della loro attrattiva fiscale su regimi vantaggiosi per le multinazionali. Inoltre, le forti pressioni politiche e la minaccia di dazi di ritorsione da parte degli Stati Uniti, paese di origine della maggior parte dei giganti tecnologici, hanno contribuito a rallentare e complicare il processo decisionale a livello europeo. Di conseguenza, diversi Stati membri, tra cui l’Italia, hanno proceduto con imposte nazionali in attesa di una soluzione globale o europea.

Qual è la differenza tra la Digital Tax e un dazio doganale?

Sebbene entrambi possano influenzare il costo finale di beni e servizi, la Digital Tax e i dazi doganali sono concettualmente diversi. Un dazio doganale è un’imposta applicata su beni fisici quando attraversano una frontiera, con lo scopo di proteggere l’industria nazionale o generare entrate. La Digital Service Tax, invece, è un’imposta sui ricavi derivanti da servizi immateriali, come la pubblicità online o l’intermediazione digitale. Non colpisce un bene fisico che viene importato, ma il valore creato digitalmente all’interno di un Paese. L’obiettivo primario della DST è risolvere un problema di equità fiscale: assicurare che le aziende digitali, che possono generare enormi profitti senza una presenza fisica, paghino le tasse nei luoghi in cui creano valore, proprio come le imprese tradizionali.

Domande frequenti

disegno di un ragazzo seduto con nuvolette di testo con dentro la parola FAQ
Che cos’è esattamente la Digital Tax?

La Digital Service Tax (DST), o Imposta sui Servizi Digitali, è una tassa applicata non sul tuo abbonamento streaming, ma sui ricavi che le grandi aziende tecnologiche generano offrendo determinati servizi digitali. In Italia, l’aliquota è del 3% e si applica a ricavi derivanti da servizi come la pubblicità online mirata, le piattaforme che mettono in contatto gli utenti (marketplace o social network) e la vendita di dati raccolti dagli utenti stessi.

Questa tassa sui servizi digitali la pago anche io?

Direttamente no, la tassa è a carico delle grandi imprese multinazionali con ricavi globali superiori a 750 milioni di euro. Tuttavia, è possibile che queste aziende decidano di “scaricare” parte di questo costo aggiuntivo sui consumatori finali, aumentando i prezzi dei loro servizi o degli abbonamenti. Quindi, anche se non la paghi direttamente, potresti subirne un impatto indiretto sul portafoglio.

Perché l’Italia e l’Europa hanno introdotto questa tassa?

L’obiettivo principale è garantire una maggiore equità fiscale. Le grandi aziende del settore digitale generano enormi profitti nei Paesi dove hanno milioni di utenti, come l’Italia, spesso senza avere una presenza fisica significativa e quindi senza pagare tasse adeguate in quel territorio. La Digital Tax mira a colmare questo vuoto, facendo in modo che queste multinazionali contribuiscano fiscalmente nei luoghi in cui creano valore.

Quali sono i servizi digitali interessati dall’imposta?

L’imposta in Italia si concentra su tre aree specifiche: la veicolazione di pubblicità mirata su interfacce digitali, la messa a disposizione di piattaforme che facilitano l’interazione e lo scambio di beni o servizi tra utenti (come i marketplace) e la trasmissione a terzi di dati raccolti dagli utenti. Non riguarda, ad esempio, la vendita diretta di beni sul sito del produttore o i servizi di pagamento digitale.

Esiste una soluzione internazionale o ogni Paese fa da sé?

Inizialmente, diversi Paesi europei, tra cui l’Italia, hanno agito in autonomia. Tuttavia, da anni l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) lavora a un accordo globale per una tassazione più equa delle multinazionali, noto come “Two-Pillar Solution”. Questo accordo, che include una tassa minima globale del 15%, mira a creare un sistema coordinato e a sostituire le imposte digitali nazionali per evitare conflitti commerciali e doppie imposizioni.